Tre sfide per il futuro della convivenza umana

Lettera diocesana 2021/10_Sguardi

Siamo di fronte a tre grandi sfide per disegnare il futuro della nostra convivenza umana in un rapporto di protezione e corretta gestione delle risorse del creato:

  • Come contrastare il cambiamento climatico?
  • Come mantenere la biodiversità?
  • Come conciliare la tutela ambientale con condizioni di benessere economico per tutta la popolazione mondiale?

Tre domande che corrispondono a tre strategie d’azione, a tre politiche che negli ultimi anni si stanno caratterizzando per scelte ben definite: la politica relativa ai cambiamenti climatici nell’ambito della Convenzione-Quadro sui Cambiamenti Climatici del 1992 che, dopo l’accordo di Parigi del 2015, viene resa operativa dalle decisioni delle Conferenze delle Parti (CoP), l’ultima, la 26iesima, tenuta in questi giorni a Glasgow. La seconda politica è quella ispirata dalla Convenzione per la diversità biologica del 1992 la cui CoP si concluderà con importanti decisioni nel maggio 2022 a Kunming (Cina). Infine, la terza politica è quella della bioeconomia, spesso integrata con i principi dell’economia circolare.

Qualche informazione generale può aiutarci a capire le sfide che abbiamo di fronte.

Il declino degli ecosistemi naturali terrestri, d’acqua dolce e marini, con la perdita di biodiversità e l’estinzione di un numero crescente di specie animali e vegetali è legato ai radicali cambiamenti nelle forme d’uso dei suoli, in un rapporto sinergico con la crisi climatica. Gli ecosistemi naturali sono diminuiti del 47% rispetto alle loro condizioni in epoca pre-industriale. Solo un quarto degli ecosistemi terrestri è attualmente in grado di preservarsi attraverso meccanismi di auto-regolazione.

I paesi meno sviluppati, che sono spesso quelli più ricchi di biodiversità e più dipendenti dalle risorse naturali, stanno subendo le più significative perdite di biodiversità e da degrado del territorio (desertificazione, salinizzazione delle acque e dei terreni); tali processi si collegano, in forme sinergiche, con lo sviluppo di conflitti, anche armati, in questi paesi. In tutto il pianeta si registrano più di 2.500 conflitti sulle risorse naturali, l’acqua, il cibo e l’uso della terra.

Dal periodo preindustriale (1850-1900) la temperatura media osservata della superficie terrestre è aumentata di 1,53°C (con un intervallo di confidenza stimato nell’intervallo tra 1,38°C e 1,68°C). Le temperature medie negli ultimi 30 anni hanno avuto un aumento di 0,2°C per decennio. Negli ultimi anni, e in particolare nel 2021, si registra una successione di record negativi tra gli indicatori climatici (temperature, precipitazioni e collegati fenomeni come alluvioni, incendi, frane, attacchi parassitari…).

Dalla percezione sempre più diffusa di questi problemi nasce la politica di sviluppo della bieconomia il cui principio-guida è quello della de-carbonizzazione ovvero della sostituzione delle risorse fossili con risorse rinnovabili di origine agricola, forestale e marina. L’obiettivo di un’economia a emissioni zero, fissato dall’Unione Europea al 2050, prevede la sostituzione delle risorse fossili con risorse rinnovabili non solo negli impieghi energetici (e, quindi, energia solare, eolica, bio-carburanti…) ma anche in quello di molti materiali, da cui lo sviluppo di interi nuovi settori industriali basati sull’impiego di biomasse: bio-plastiche, bio-tessili, bio-farmaceutici… A questa crescita delle produzioni non-food si associa una crescita dei consumi di proteine animali tra la popolazione dei paesi emergenti, che comporta la necessità di più terreni per produzioni di foraggi e altre componenti dell’alimentazione animale.

Non pochi esperti di questi processi mettono in dubbio la possibilità di conciliare il contenimento dei cambiamenti climatici tramite la decarbonizzazione dell’economia con la possibilità di aumentare l’offerta complessiva di beni materiali e un’equa distribuzione degli stessi. Semplificando: il problema non è solo quello di sostituire veicoli a benzina con veicoli elettrici basati sull’impiego di energie rinnovabili, ma cambiare i modelli di trasporto e, più in generale, gli stili di vita (alimentari, di gestione dei rifiuti, i tempi e le modalità di lavoro, il tempo libero e le connesse attività relazioni e, non da ultimo, i redditi e i panieri di beni consumati).

Come ci insegna l’esperienza del Covid-19, nonostante i grandi progressi nella capacità di controllo delle forze naturali da parte dell’uomo, siamo sempre più interconnessi e mutualmente dipendenti dalle diverse componenti del capitale naturale. Siamo parte di un unico grande e complesso ecosistema globale dove abbiamo sostituito molti meccanismi di autoregolamentazione naturale con meccanismi energivori basati sulla tecnologia, tanto pervasivi da suggerire l’idea di un cambiamento epocale nel ruolo dell’uomo nella gestione della terra (il passaggio dall’oleocene all’antropocene).

Questa condizione, che dovrebbe teoricamente portare a una maggior resilienza e capacità di risposta solidale, contrasta invece con l’esperienza di una maggior vulnerabilità di fronte ai cambiamenti, una vulnerabilità accentuata dall’imprevedibilità delle dinamiche ambientali e sociali.

La crisi ambientale, il “grido della terra”, dovrebbe insegnarci che c’è un’interconnessione forte tra qualità delle risorse ambientali e il benessere della comunità: la tutela delle risorse naturali, la ricchezza e stabilità degli ecosistemi sono le precondizioni per uno sviluppo umano integrale. Non esiste un rapporto di scambio, un trade off, tra consumo delle risorse naturali e qualità della vita. Chissà se l’eccezionale evento del Covid-19 potrà effettivamente essere l’occasione di riflessione che Albert Einstein auspicava affermando che «Nel passaggio di ogni crisi, si manifestano grandi opportunità».

Davide Pettenella, professore di economia forestale presso l’Università di Padova