“Servire” l’altro

Lettera diocesana 2017/06

Per la mentalità corrente ci si potrebbe sentire feriti nella sensibilità di fronte all’uso del termine “servizio” specie quando definisce la relazione tra persone o l’identità di qualcuno. In questi casi, infatti, servire richiama una forma di subalternità per la quale chi serve occupa una posizione di inferiorità rispetto a chi è servito. L’utilizzo del termine è invece normalmente accettato se impiegato in un contesto istituzionale per cui al servizio reso equivale un corrispettivo economico che sdogana ogni possibilità di sottomissione, la forma del contratto, infatti, colloca le parti sullo stesso piano. In ogni caso è un termine problematico che in più di qualche caso ha lasciato il posto ad altre forme lessicali meno impegnative. Ad esempio si usa il termine volontariato che però sposta l’accento su chi compie l’azione – non su chi la riceve – e sulla sua libertà di interromperla in qualsiasi momento.

Per contro “servizio” è un termine molto caro al cristianesimo perché il significato ricevuto nel contesto dei popoli antichi del vicino oriente, già di per sé molto ricco e socialmente accettato, è stato personalizzato e rilanciato da Gesù stesso. Sono interessanti gli episodi dell’incontro di Gesù con la suocera di Pietro (Mc 1,29-34) che subito dopo essere stata guarita si mise a servire Gesù e i due discepoli che erano con lui e quello della visita di Gesù nella casa delle sorelle di Lazzaro (Lc 10,38-42) in cui ognuna delle due presta all’ospite attenzioni, seppure diverse. Tutto dice che il servizio è associato all’ospitalità e all’attenzione da rivolgere all’altro. Le azioni sono semplici e quotidiane ma hanno un impatto molto forte su chi le riceve perché dicono accoglienza, disponibilità, apertura e interesse nei suoi confronti. Il gioco degli sguardi e l’ascolto attento e attivo spesso sono completati dalla fisicità di alcuni gesti: il toccare, l’accarezzare, il baciare, il lavare i piedi e la relazione viene arricchita da una certa intimità e delicatezza. Sono gesti semplici che però hanno bisogno di tutte le facoltà umane per essere agiti, per servire non si può essere febbricitanti ma nelle condizioni di offrire il meglio si sé; non si possono avere secondi fini – l’altro se ne accorgerebbe – ma desiderio di gratuità.

Come già anticipato Gesù è andato ben oltre perché ha rivelato che il servizio è la sua stessa identità, la sua vocazione. Lo è nei confronti del Padre, nei confronti del creato, nei confronti della società, nei confronti dell’altro, di qualsiasi altro, anche di chi non è riconoscibile perché picchiato, derubato, denudato e abbandonato ai bordi di una strada. Gesù si attribuisce questo tratto distintivo quando dice di non essere venuto per essere servito ma per servire e dare la vita in riscatto per molti (Mc 10,45) e lo attribuisce ad ogni cristiano perché dopo la lavanda dei piedi chiede ai suoi di ripetere il gesto come gesto caratteristico di una comunità cristiana. Risulta chiaro che il servizio è il modo di essere che esprime la dignità e la responsabilità della persona chiamata a condividere lo stile stesso di Dio.

Ogni vocazione cristiana allora è animata dal servizio e ogni vocazione dovrebbe passare il vaglio di questo criterio per essere accolta nella Chiesa, quella del pastore come quella della vita consacrata, quella del matrimonio come quella dell’impegno politico…

C’è poi una vocazione specifica, quella del diaconato, che è nata nella Chiesa per esprimere in maniera più immediata e visibile l’identità del servizio e per ricordare alle altre vocazioni la comune chiamata al servizio come la modalità esistenziale di fare memoria della persona di Gesù e di offrirlo così ad ogni persona di ogni luogo e cultura.

Lorenzo Rampon, diacono in servizio alla Caritas diocesana