Perché e come contrastare la bassa natalità

Lettera diocesana 2017/09

La bassissima fecondità italiana ha ormai trent’anni di storia, perché è dal 1985 che non nascono più di 1.500 figli ogni mille donne in età fertile. Eppure, fino al 2005 il numero di nascite è rimasto abbastanza elevato, superiore a 520-550 mila, perché negli anni precedenti si sono stabilite in Italia molte coppie straniere, e perché erano in età fertile le figlie del baby boom, nate fra metà anni ’50 e metà anni ’70. Ma nel corso degli anni ’10 le cose cambiano: il numero di donne in età fertile continua a diminuire, assieme alla propensione ad avere figli. Nel 2016 in Italia sono nati 1.350 figli ogni mille donne in età fertile, quando ne sarebbero necessari almeno 1.800 per mantenere un numero sufficiente di giovani e di adulti, evitando un rapido invecchiamento della popolazione, a meno di intensi e continui ingressi stabili di stranieri. Ingressi che – al di là della comune percezione – nell’ultimo decennio sono drasticamente diminuiti, perché l’Italia è diventata più in paese di passaggio che un luogo di stabile permanenza. Di conseguenza, nel 2016 sono nati in Italia appena 473 mila bambini, quasi 100 mila in meno rispetto a dieci anni prima. Se la propensione ad avere figli non aumenterà e se non arriveranno molte famiglie immigrate, questo numero è destinato a ridursi ancora, andando al di sotto dei 400 mila nati nel breve volgere di un decennio, perché le donne italiane in età fertile continueranno inesorabilmente a diminuire.

Fino a qui i numeri. Interroghiamoci ora sulla loro sostenibilità e sulle eventuali misure che possano invertire queste tendenze. Un ulteriore, drastico calo delle nascite non è auspicabile. Nel breve periodo, meno bambini vuol dire drastica riduzione di tutto ciò che attorno ai bambini ruota: chiusura di asili e scuole, spopolamento dei paesini isolati, e così via. Nel lungo periodo, meno bambini vuol dire meno lavoratori, e quindi un sistema pensionistico e sanitario sempre meno sostenibile, a meno di ingressi molto consistenti di stranieri, con tutte le difficoltà del caso. Per utilizzare il linguaggio degli economisti, i figli (come gli immigrati, del resto) non sono solo un “bene privato” ma anche un “bene pubblico”, perché giovano anche a chi di figli non ne ha. Una società benestante e demograficamente sana vede il numero di anziani aumentare, grazie a migliori stili di vita e ai progressi sanitari, ma vede anche il numero di bambini, giovani e adulti che non diminuisce, grazie a un equilibrato apporto delle nascite e delle migrazioni. È quanto accade, oggi, in Paesi come la Germania, il Regno Unito, la Svezia e la Francia. Quindi non è vero che il benessere non è compatibile con 2-3 figli per donna e con ragionevoli flussi di immigrazioni. È però necessario organizzare la società in modo che le famiglie con 2-3 figli e le famiglie immigrate non siano pesantemente penalizzate.

Guardando ai Paesi citati, si dovrebbe intervenire su tre versanti. In primo luogo, va costruita una fiscalità di vantaggio per le famiglie con più figli. Gli strumenti possono essere diversi (quoziente familiare, assegno universale per ogni figlio…), ma la questione è prima di tutto culturale: se in trent’anni nessun governo – di ogni colore – è riuscito a intervenire in modo adeguato, è perché nessuno ha mai preso sul serio l’idea che un bambino in più è un vantaggio anche per chi di figli non ne ha. Non ricordo nessuno sciopero per aumentare gli assegni familiari. C’è da augurarsi che questa nuova rapida diminuzione delle nascite susciti un allarme tale da indurre un cambio drastico di mentalità. È poi necessario che gli uomini e (specialmente ) le donne riescano a conciliare il lavoro di cura con il lavoro per il mercato: l’arrivo di un nuovo figlio dovrebbe essere “neutrale” rispetto alle possibilità di lavoro e di carriera di entrambi i genitori. Anche queste misure possono essere di vario genere, e sottendono l’idea che una società costruita a misura delle coppie con più di un figlio sia un grande vantaggio collettivo. Infine tutti, inclusi gli stranieri recentemente stabiliti in Italia, che spesso hanno più figli rispetto alle coppie italiane, e non godono di ricche reti familiari, dovrebbero essere protetti dal rischio di cadere in povertà, non in modo assistenziale, ma attraverso misure di inclusione attiva.

Insomma, la lotta alla bassa natalità dovrebbe diventare un elemento base anche della politica italiana, come già è accaduto in altri paesi. Possiamo anche continuare a far finta di niente, ma nel giro di pochi anni la demografia presenterà un conto molto, molto salato.

Gianpiero Dalla Zuanna, professore di demografia