Osiamo dire

Lettera diocesana 2020/08

Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore.

Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze.

Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore.

 Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua,

quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai.

Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi

e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte.

(Dt 6, 4-9)

Lo Shemà Israel è una preghiera della liturgia ebraica che prende il nome dall’incipit di tre brani dell’Antico Testamento (Dt 6,4-9; 11,13-21 e Nm 15,37-41) che il pio israelita celebra entro il contesto di alcune bellissime preghiere di benedizione e di lode a Dio (le berakoth). Lo Shemà è sicuramente la preghiera che i figli di Israele recitano con più amore al mattino, alla sera e prima del riposo (i genitori la insegnano ai loro figli prima di andare a dormire). Colpisce poi che il testo dello Shemà – vogliamo sottolinearlo – come quello delle berakoth, delle amidot (preghiere da recitarsi in piedi) e di altre preghiere rabbiniche, ha un linguaggio molto vicino (cfr. E. Lodi, Liturgia della Chiesa, Bologna 1999, 474-475) a quello usato dal Signore Gesù nella «sua» preghiera (l’Oratio dominica, il Padre nostro) con la quale ha insegnato ai Dodici a rivolgersi a Dio chiamandolo Padre.

Sappiamo che già la Chiesa antica ne raccomandava la recita tre volte al giorno; tra la fine del I e l’inizio del II secolo, la Didachè (VIII,3) o Dottrina dei Dodici apostoli, esortando a usare la Preghiera del Signore, stabilisce questa norma «Così [con le parole della preghiera del Pater] pregherete tre volte al giorno», traendo ispirazione probabilmente dalla triplice recita dello Shemà Israel della tradizione ebraica. La Preghiera del Signore ha avuto fin da subito pertanto un posto di primo piano nelle catechesi battesimali e per tale ragione veniva consegnata dal vescovo – nel corso del solenne rito della Traditio dominica – ai catecumeni ormai prossimi (competentes o electi) al battesimo, prassi che ancora oggi viene usata per i catecumeni – nel Rito dell’Iniziazione cristiana degli adulti – nel Tempo della purificazione e illuminazione, al termine del loro itinerario.

La preghiera del Pater si trova poi in tutti i riti della Chiesa, perfino nella celebrazione degli esorcismi, e particolarmente nell’Ufficio divino (alle Lodi mattutine e al Vespro) e nella messa, dove funge da preparazione alla comunione. È proprio la triplice ripetizione della Preghiera del Signore che, nella Nuova alleanza, indica come quel Dio che ci è chiesto di «amare con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» sia, come Gesù ci ha insegnato, il Padre celeste di ognuno di noi. Ora con le parole del Padre nostro, Gesù vuole indicarci che, pur essendo noi creature che tutto devono a Dio ed esistono per la sua sola grazia, questo non ci pone dinanzi a lui da schiavi ma come figli (cfr. Gal 4,7) i quali, riscattati dalla Legge, hanno ricevuto l’adozione (cfr. Gal 4,5) e prova ne è il fatto che «Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”» (cfr. Gal 4,6). Certa di questa rivelazione, la liturgia, come la grande cattedrale della preghiera cristiana scritta ispirandosi ai più sublimi misteri della nostra fede, giunge – proprio quando tocca l’apice della sua magnificenza – a deporre ogni parola umana, ogni balbettio della lirica cristiana, ogni terrena enunciazione della fede, per cedere – quasi con un atto di umiltà – il posto alle divine parole del Salvatore: Pater noster, qui es in cælis… Scorgiamo questo singolare atteggiamento della preghiera cristiana nel del De oratione dominica di Cipriano (n. 5 – CSEL 3, 268-270) nel cui testo il santo vescovo di Cartagine, morto martire nel 258, afferma: «E allorché ci raduniamo con i fratelli e celebriamo con il sacerdote di Dio i divini misteri dobbiamo rammentarci del rispetto e della buona educazione: non sventolare da ogni parte le nostre preghiere con voci disordinate, né pronunziare con rumorosa loquacità una supplica che deve essere affidata a Dio in umile e devoto contegno».

Il Padre nostro è la porta di accesso al cuore di Dio che il Signore Gesù, senza nostro merito, ha spalancato per noi, rendendoci, per l’insondabile mistero dell’adozione filiale,  figli “come lui”, amati “come lui”, resi capaci dallo Spirito Santo, versato nei nostri cuori, di dire a Dio ciò che mai alcuna mente umana, alcun afflato religioso avrebbe mai osato nemmeno pensare: Abbà! Padre!

Per questo atteggiamento di pietas, la liturgia romana – con parole severe e piene di nitida gravità – introduce la preghiera della confidenza filiale con un monito che risuona potente come il fragore di grandi acque (cfr Ap 19,6): «Obbedienti alla parola del Salvatore e formati al suo divino insegnamento, osiamo dire»! Sì! Non è pensabile che la creta chiami il creatore Abbà, con il nome che i piccoli rivolgono al loro padre… Per dire Abbà è necessaria l’effusione dello Spirito Santo; per dire Abbà è necessaria la parola del Salvatore e il suo insegnamento divino; per dire Abbà è necessario il consenso della Chiesa; per dire Abbà si deve osare… e per questo la liturgia – Dio volesse che nessuno dimentichi mai o svilisca la potenza di questa insostituibile ammonizione! – ci introduce alla Preghiera del Signore cantando: osiamo dire!

don Gianandrea Di Donna, direttore Ufficio per la Liturgia