Manca la percezione di corresponsabilità nel dare vita alla testimonianza credente come popolo

Lettera diocesana_Sguardi_2022/04

La disaffezione all’impegno pubblico, un diffuso fai da te nella valutazione morale, la dispersione dei punti di vista e delle opzioni politiche e sociali, la frequente indistinguibilità nella testimonianza, e per giunta adesso anche il brusco calo della partecipazione alla vita liturgica e comunitaria, effetto della pandemia, certo, ma forse anche dell’accelerazione di fenomeni già in azione: che davvero gli italiani siano diventati “gente di poca fede”, come ha teorizzato Franco Garelli in un suo recente saggio?

La crisi indotta dal Covid e la guerra in Europa hanno fatto irruzione prendendo alle spalle l’intera umanità, il Paese, e figuriamoci se i cattolici italiani potevano fare eccezione. Ma questi due fenomeni globali e fortemente impattanti hanno colto la cattolicità di casa nostra se possibile ancor più di sorpresa, come se non stesse facendo davvero i conti con una realtà sempre più disorientante, tra effetti culturali della rivoluzione digitale, scenario politico nebuloso e uno strisciante scetticismo sulla reale capacità di lasciare il segno nella vita collettiva a partire (e non a prescindere) dalla radice evangelica.

La comunità ecclesiale italiana – definizione che abbraccia una pluralità sempre più evidente di voci, sensibilità e stili – sembra vivere con disagio una pagina di storia nazionale e planetaria che pure le offre opportunità di presenza, parola e azione senza precedenti proprio per le dimensioni della complessità e dell’incertezza che la caratterizzano. La crisi può far emergere la “differenza del Vangelo” come fattore in grado di dar senso e mobilitare anche (o specialmente) in situazioni di crisi. La transizione in corso verso un approdo che mai è parso tanto ignoto interroga oggi con forza senza precedenti la capacità cristiana di far lievitare la realtà confusa di questo tempo. La vasta impressione suscitata dalla parola del Papa dentro gli scenari pandemico e bellico documentano che nella coscienza di questa contemporaneità ferita e disillusa si è aperto uno squarcio, nel quale si è già introdotta – lo vogliamo o no – la pietra d’inciampo della Parola.

Mai come adesso sembra però indispensabile poter cogliere anche un’azione condivisa percepibile ed efficace di tutta la Chiesa italiana sulla realtà. Detto in breve: il senso di un’appartenenza, perché tutti possano riconoscere ciò che induce a non scoraggiarsi mai, a sperare anche contro ogni evidenza, a operare per unire, a sognare un mondo non rassegnato a leggi e dinamiche inesorabili decise altrove. Occorre cogliere la novità del Vangelo come se fosse stato predicato ieri in una società che non l’ha ancora conosciuto davvero, perché forse a non sapere di quale rivoluzione è ancora e sempre capace siamo noi credenti per primi. Si è fatto largo un “complesso dell’irrilevanza” che induce a lasciar perdere, a badare a sé, e che porta a non vedere come alla comunità credente si può mostrare (o non mostrare) di essere legati in molti modi, anche apparentemente marginali. Come l’adesione al sostegno economico della Chiesa e delle sue opere, mai come ora oggetto di superficiale disinteresse, come un gesto burocratico poco significativo, e infatti sempre più diffusamente abbandonata. Segno, anch’esso, di “poca fede”? Piuttosto, sembra il riflesso di un ormai insufficiente senso di “famiglia” comunitaria.

Su questo difetto di coscienza di popolo sta cercando di agire il cammino sinodale. Un viaggio lungo e incerto, ma che ha il merito non piccolo di assumere un’iniziativa nel senso della maggiore conoscenza dell’ambiente in cui è chiamata ad agire una presenza animata dalla fede, intervenendo per colmare un difetto di realismo che segna una distanza tra la pratica religiosa e le dinamiche della storia. Per colmare questo divario occorre gettare anzitutto il ponte di un ritrovato senso di appartenenza, che appare a corto di fiato – tra gli altri indicatori – proprio nel calante interesse verso l’8xmille alla Chiesa cattolica, non più gesto scontato – ed è certo un bene – ma che quando la firma è semplicemente omessa pare più il sintomo di un’inadeguata percezione della corresponsabilità nel dare vita alla testimonianza credente come popolo. Se scende la quota parte del gettito fiscale destinato alla Chiesa non è per una salutare cura dimagrante indotta ma anzitutto per un’insensibilità acquisita verso la capacità di scavare un solco nella storia presente, sapendo di poterlo fare soltanto insieme.

Come rigenerare la componente comunitaria della fede per spingere di nuovo verso il largo la barca della Chiesa è tra le domande alle quali va posta più cura adesso. Perché sulla riva c’è il Signore che chiede, una volta ancora, di fidarsi a gettare le reti.

Francesco Ognibene, giornalista Avvenire