«Lex orandi, lex credendi»

Lettera diocesana 2021/11

Legem credendi lex statuat supplicandi. Questo antichissimo assioma – uscito dalla penna di san Prospero di Aquitania[1]monaco, raffinato scrittore e teologo vissuto tra la fine del IV e l’inizio del V secolo a servizio dei papi San Celestino I e san Leone Magno – suona letteralmente così: la regola del pregare stabilisca la norma del credere. Asserto della prima stagione patristica, esprime, con purezza cristallina, l’inscindibile relazione tra la celebrazione della fede e la sua professione. La fede si professa e perciò si celebra; la fede si celebra e perciò si professa; e, nell’azione sinergica e circolare del celebrare la fede e del professarla, si comprende come il mistero rivelato approdi alla sua formulazione dottrinale passando attraverso l’esperienza ecclesiale del celebrare il mistero stesso. Probabilmente non si tratta di stabilire se venga prima la fede celebrata o la fede professata, ma di mostrare come non possa esistere verità di fede senza che essa stessa venga celebrata, né celebrazione liturgica della fede che non sia lo specchio di ciò in cui si crede.

Il Messale Romano nuovamente rivisitato e affidato alla Chiesa italiana nell’Avvento del 2020, trova il suo senso più pieno solo se colto in questa prospettiva: si tratta di comprendere, infatti, come l’agire rituale della Chiesa sia uno strumento privilegiato attraverso il quale la fede viene comunicata. Infatti la stessa Rivelazione non viene manifestata attraverso un processo “gnostico”; essa non è, infatti, un sistema di verità astratte trasmesse alla conoscenza, alla gnosi (dottrina della salvezza tramite la conoscenza) dell’uomo. Lo gnosticismo antico, detto per inciso, affermava che la salvezza dell’anima dipendesse da una conoscenza (una gnosi appunto) superiore e illuminata dell’uomo, del mondo e dell’universo, raggiungibile attraverso un itinerario personale di ricerca della verità. Il cristiano sarebbe così una persona “che sa”, “che conosce”, “che vive in una condizione di vita superiore” già in terra e successivamente nella vita eterna, con una sorte diversa, cioè superiore, rispetto a quella di “chi non sa”.

L’atto vitale del celebrare “i riti dell’uomo” si pone, invece, in una dimensione diametralmente opposta: rifiutando la pura “ragione”, la mera “conoscenza”, esso tiene in considerazione tutte le dimensioni antropologiche dell’uomo, le esalta, le pone in azione, mettendo in gioco la voce, il silenzio, il corpo, la coscienza, la ragione, le parole, il canto, la relazione, i sensi, la Scrittura, la Verità poetica (come potremmo definire i testi dell’eucologia cristiana)… la lex orandi è, in sintesi, quanto accade entro l’impianto antropologico-rituale con il quale si manifesta la verità e l’agire stesso di Cristo. Ecco perché l’opportunità pastorale offertaci dal Messale italiano rinnovato, sta proprio nel consegnarci un impianto antropologico-rituale, un linguaggio che si opponga alle derive di un neo-gnosticismo sempre in agguato. La messa riformata ha bisogno di credere che all’inizio di un rito è sufficiente – brevissimis verbis – accennare timidamente al nostro posare i piedi su una terra che è santa, senza sproloqui che si compiacciono dell’ordinario anziché del fuoco del roveto; il vivo respiro dell’uomo chiede che il silenzio dell’atto penitenziale pesi “tutto il peso di Dio” e non si attardi in considerazioni moralistiche; una relazione con l’umano poco “schizzinosa” e sbrigativa ci permette di spendere il tempo cantando le invocazioni a Cristo, il Kyrios, e la sua Gloria celeste assieme agli angeli; le braccia del presbitero hanno bisogno di tendersi verso l’alto per portare la carne ferita degli uomini verso i cieli; i libri delle Sante Scritture reclamano una nube d’incenso che li avvolga perché “non basta attualizzare la Parola” ma si deve adorare il Verbo che in essa è velato; il pane e il vino per il Sacrificio eucaristico non hanno bisogno di tarantelle offertoriali quanto di canestri con il cibo per i poveri; l’Anafora eucaristica non ricerca la fredda scansione di “efficaci parole consacratorie” ma l’arte del cantare uniti agli Angeli e agli Arcangeli; il Pane e il Vino celesti attendono di scendere dall’altare come cibo dei pellegrini, perché tutti finalmente siano nutriti alle specie del Corpo e del Sangue di Cristo senza definire queste azioni lungaggini inutili… La Liturgia ha sì bisogno della ragione ma anche del corpo degli uomini perché si mostri la capacità di abitare dimensioni dimenticate del rito quali lo spazio, i ministeri liturgici laicali, l’azione dello Spirito Santo, il canto del celebrante in dialogo con il canto dell’assemblea, l’offerta dei  doni e quella della carità, la ricchezza dei testi, la sovrabbondanza del gesto, l’ebbrezza del canto dei salmi di Davide, la roboante potenza dell’organo e la virile dolcezza (non il fragore, non la melensità) degli strumenti, l’unisono del Sanctus… Non c’è posto per la gnosi! Perché la Verità si è fatta carne e solo attraverso questa carne si può professare: Credo in un solo Dio Padre onnipotente

don Gianandrea Di Donna, direttore Ufficio per la Liturgia


[1] Indiculus, cap. VIII: Denzinger n. 246 e Prospero di Aquitania, De vocatione omnium gentium, 1,12: PL 51,664C.