La parrocchia del Secondo annuncio: un salutare soqquadro

Lettera diocesana 2018/10

Da quali riforme parte il cammino di una parrocchia del “Secondo annuncio?”

Si tratta di abbandonare parole che mediano schemi mentali a cui le parrocchie sono abituate.
Parole come «lontani», «indifferenti», «sulla soglia» sono destituite di fondamento nella parrocchia del Secondo annuncio. I protagonisti del Secondo annuncio si rendono conto che occorre smettere di collocare le persone decidendo quali siano le loro distanze dal Regno e dal Vangelo… chi può, infatti, misurare la capacità di adeguamento al Regno di Dio di questa o quella coscienza? Nello stile della fiducia che anima l’incontro con ogni persona e nella gratuità dell’offerta del Vangelo a tutti, la parrocchia del Secondo annuncio rivolge la Parola di Dio in uno stile di rinuncia a quel pregiudizio che incasella l’altro e lo riduce a categoria. Il Secondo annuncio è una proposta che nella libertà da ogni attesa di risultato si offre alla libertà di ciascuno e pertanto, permettendo differenti cammini, si lascia sorprendere e mai avvilire dai tempi dell’altro che non ci appartengono.

Questo suppone un decentramento: non la Chiesa al centro, ma il Vangelo.
La parrocchia del Secondo annuncio si propone come obiettivo di «spostarsi dal centro». Non lavora per l’adesione di nuovi membri alla comunità, anche se cura i processi che ne favoriscono l’ingresso, ma si dà come scopo quello di suscitare l’interesse al Vangelo. Pur vivendo un’esperienza comunitaria fraterna nella logica del «vieni e vedi» (Gv 1,46) e non del «vieni e impara», la parrocchia del Secondo annuncio non punta ad accrescere le fila dei parrocchiani, ma piuttosto a generare dei cristiani «al mondo»: non persone che nascono, crescono, muoiono in parrocchia, identificando la vita cristiana con il servizio alla comunità, ma persone che nascono o rinascono per una testimonianza di vita nuova che tocca gli ambienti mondani, nell’autonoma e coraggiosa interpretazione di che cosa significhi vivere il Vangelo nel loro contesto umano e sociale.

Tutto questo significa certamente un cambio di stile di vita comunitaria.
La parrocchia non sarà più animata da quell’attivismo che assorbe tutte le energie per portare avanti quanto si è sempre fatto, con la costrizione a rifare quest’anno gli stessi servizi erogati nell’anno precedente «perché si è sempre fatto così» (EG 33) continuando a vivere la logica della “fotocopia”, quanto piuttosto di risvegliare il desiderio di avviare nuove esperienze o nuovi modi di evangelizzare dando spazio perciò a nuovi protagonisti, a nuove competenze che nell’ordinario stile parrocchiale non vengono riconosciute.

Il cambiamento di stile incide sul modo di vivere il rito domenicale.
La liturgia è sempre e comunque specchio di un agire comunitario ed esperienza performativa per una comunità. La liturgia di questa comunità non è una liturgia separata dagli altri ambiti pastorali, non è concepita in un tempo/spazio sacro, ma diviene esperienza dove la vita di ciascuno si sente riconosciuta e accolta, un luogo dove ciascuno si può trovare a casa «con la sua vita faticosa» (EG 47), dove grandi e piccoli possono abitare in sintonia pur nella propria diversità. Spariscono le celebrazioni per categorie (la messa per i bambini o la messa del catechismo) perché il linguaggio dell’umano viene condiviso e ciascuno lo abita a suo modo.

Decisivo è il modo di gestire i ruoli e le dinamiche di potere nella comunità.
Non possiamo non riconoscere che le parrocchie spesso sono formate da un nucleo di persone identificabili come “i soliti noti attorno al prete”, persone generose che senza accorgersene sono impegnate a gestire tutto e si percepiscono come coloro che da sempre hanno gestito e forse per sempre gestiranno… Chi si avvicina o si riavvicina spesso non si sente legittimato ad avere almeno una parola da spendere sulle decisioni della parrocchia, non potrà mai, se non dopo un lunghissimo tirocinio o apprendistato, sentirsi a casa propria, “padrone” (cioè corresponsabile) e non semplicemente fruitore di attività gestite da altri. Una parrocchia che non entri profondamente nella logica del Secondo annuncio senza rendersene conto propone, a chi si avvicina o si riavvicina, una relazione da “cliente” nei confronti del quale gli operatori pastorali sono percepiti come gli esercenti dell’attività. Questo schema di relazioni impedisce quella comunione fraterna che sorprenderebbe. Lo stile della parrocchia del Secondo annuncio esige che ci si educhi a una maggior gratuità del servizio e a una rinuncia al potere; a una ministerialità più duttile, a non attaccarsi al proprio “orticello di servizio”; a divenire liberi da personalismi; a rinunciare alla tentazione di diventare quelle figure indispensabili che poi lasciano il vuoto dietro di sé.

don Ivo Seghedoni, docente di Teologia pastorale all’Issr dell’Emilia Romagna e parroco a Modena