Il richiamo all’amicizia sociale, nel tempo della pandemia

Lettera diocesana_Sguardi 2020/07

Fratelli tutti è un’enciclica particolare che, per la lunghezza, la complessità e l’intreccio dei temi merita ben più di una sola lettura; il papa dichiara di voler «portare un po’ di luce in mezzo a ciò che stiamo vivendo» (n. 56) raccogliendo in un contesto ampio di riflessione molti dei suoi interventi (n. 4) per poter vivere e agire un nuovo sogno di fraternità e amicizia sociale (n. 6).

Una prima chiave di lettura è quindi quella di seguire lo svolgersi e l’evolversi delle riflessioni di Francesco, anche antecedenti al suo divenire papa, per esempio attraverso il ricorrere di alcuni temi sintetizzati in vocaboli ormai divenuti emblematici del suo pensiero: popolo, scarto, tempo, spazio, unitario e molteplice tanto per citarne alcuni. Un’altra modalità di lettura potrebbe concentrarsi su come il papa abbia raccolto e organizzato l’enciclica in sezioni: l’analisi storica, quella culturale, quella economica, quella politica, la riflessione sempre ricorrente sul migrare e l’accogliere persone, idee, relazioni, situazioni di vita.

La chiave di lettura più immediata, in cui però è insito il rischio di restringere il pensiero di Francesco all’oggi contingente, è di trarre “un po’ di luce” per le nostre vite che paiono, e in parte sono, dominate dalla pandemia del Covid-19.

In primo luogo Francesco afferma che, proprio mentre stava scrivendo, la pandemia «ha fatto irruzione… e ha messo in luce le nostre false sicurezze» mostrando «l’incapacità di agire insieme» (n. 7); da qui il suo desiderio che «in questo tempo… possiamo far rinascere fra tutti una aspirazione mondiale alla fraternità» (n. 8) e lungo tutta l’enciclica il papa si sforza di mostrare, argomentare e sostenere con ragioni teologiche, sapienziali e anche semplicemente umane la possibilità, la necessità, l’ineludibilità della fraternità e amicizia sociale non solo perché tutta l’umanità viva bene, ma addirittura come condizione stessa del poter sopravvivere.

Sicuramente la pandemia ha mostrato e fatto sperimentare la fragilità, che individualmente è sempre presente, come elemento comune e dominante. Paura, malattia e morte, in quest’ordine, marginalizzate nella coscienza sociale o, nel caso della paura, usate strumentalmente, sono ora diventate i temi dominanti nei mezzi di comunicazione come nelle conversazioni comuni. Così come non si può vivere dominati dalla paura, dalla malattia e atterriti dal pensiero della morte, così non si può vivere ignorandole perché ciò significa ignorare il limite e la finitezza che sono parti costitutive del nostro essere uomini.

Siamo capaci di imparare da tutto ciò o speriamo solo di tornare quelli di prima, come prima?

Dice Francesco: «Prendersi cura del mondo che ci circonda e ci sostiene significa prendersi cura di noi stessi» (n. 17). La pandemia ce lo sta mostrando in modo paradossale nei gesti quotidiani: usare la mascherina non protegge tanto me stesso, ma gli altri; e se anche gli altri la usano mi proteggono, la protezione è reciproca ed efficace. Mi salvo perché bado a me stesso curando gli altri: non è forse questo un seme semplice e concreto di amicizia sociale?

«Il dolore, l’incertezza, il timore e la consapevolezza dei propri limiti che la pandemia ha suscitato, fanno risuonare l’appello a ripensare ai nostri stili di vita, le nostre relazioni, l’organizzazione delle nostre società e soprattutto il senso della nostra esistenza» (n. 33). Saremo capaci, se e quando finalmente ci si potrà guardare in volto e non solo negli occhi, di ricordarci di tutto questo e di trarne un insegnamento che diventi stile di vita, che si faccia cultura?

In Fratelli tutti il papa adotta uno stile piano, un lessico comune e la prima reazione alla lettura è un dire “Comportarsi come il buon Samaritano (l’icona guida scelta da Francesco)? Certo si deve fare così”; “La carità… può costruire un mondo nuovo (n. 183). È ovvio!”. Un atteggiamento di questo tipo nel leggere l’enciclica ci mette di fronte all’evidenza che «… il fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace» (n. 74); corriamo tutti il rischio quotidiano di «… svuotare di senso o di alterare le grandi parole» (n. 14). Pensiamo a come nella prima fase della pandemia abbiamo inneggiato ai sanitari “eroi”, abbiamo affermato che “ce la faremo” dando per certi rispetto, unità, forza, coesione di popolo. E ora?

Ora è un tempo benedetto nel dolore; un tempo in cui fede, speranza e carità possono farsi anche cultura e progetto, è il tempo della responsabilità. Non sprechiamolo.

Francesca Schiano, docente