Il corpo vivente. Dio e il corpo

Lettera diocesana 2018/05

Testo tratto dall’intervento di dom Giorgio Bonaccorso nel catalogo della mostra “I colori del sacro. Il Corpo”. Le immagini che accompagnano i contributi di questo numero di Lettera diocesana sono esposte nella rassegna internazionale di illustrazione visitabile al Museo diocesano di Padova fino al 24 giugno 2018.

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Dio viene nel corpo

Tutto ciò che attiene al sacro non nasce da una pretesa luce interiore che svelerebbe misteri nascosti. La luce interiore, a cui spesso viene riferito l’atto di fede, non viene dall’interiorità custodita in un qualche misterioso anfratto dell’essere umano. Su questo immaginario si possono costruire le fanta-religioni e forse anche qualche buon film di fantascienza che incrocia temi religiosi. L’esperienza del sacro, del mistero, di Dio, nasce da un essere sorpresi dall’esterno che si traduce in un rimescolamento della propria interiorità. La fede è questo gioco tra interiore ed esteriore che, come si è visto sopra, ha il suo centro nel corpo. Nel corpo e grazie al corpo si incontrano gli altri e le mille cose che ci circondano. E sempre nel corpo e grazie al corpo si può fare esperienza di appartenere alla totalità di tutto ciò che esiste e all’infinito. Questo senso di appartenenza non a una parte ma a tutto è l’inizio dell’atto religioso che tende poi a espandersi in diverse direzioni e soprattutto all’infinito di un Dio trascendente. Nella religione, il corpo è traslocato in una casa più grande, che comprende tutte le altre case e apre così le altre case a ciò che le trascende. L’interiorità allora non è ciò che è dentro di noi ma il nostro essere dentro il tutto, dentro l’infinito, dentro il Dio trascendente. Sì, anche dentro il Dio trascendente. La trascendenza di Dio, infatti, non è confinabile in un «al di là» da noi che lo renderebbe finito (confinabile), come se fosse qualcosa accanto a noi e quindi delimitato rispetto a noi. La trascendenza di Dio è il nostro appartenere a Dio come a ciò che è infinitamente più grande di noi. Ed è il corpo che, come ci consente di fare l’esperienza di abitare in questo mondo, ci consente anche di fare l’esperienza di abitare in Dio.

Il corpo ci rivela la vera interiorità. L’interiorità, infatti, non consiste anzitutto in ciò che sta dentro di noi, ma nel nostro essere dentro un mondo più grande, anche più grande di ciò che è raggiunto dai nostri sensi e dai nostri pensieri. E qui il corpo è decisivo, perché il corpo è più dei sensi e dei pensieri: il corpo, infatti, è la sua stessa capacità di trascendersi accogliendo la propria appartenenza a ciò che è più grande di lui. C’è un «altro» da noi che ci sta di fronte o accanto (le cose, gli animali, le persone). Ma c’è un «altro» da noi che non ci sta di fronte o accanto ma a cui apparteniamo e in cui abitiamo: questo «altro» è Dio. Apparteniamo a Dio perché è il nostro Signore, e abitiamo in Dio perché è nostro Padre. In tutto ciò il corpo è decisivo perché, come si è detto, non ci fa percepire solo l’interiorità come ciò che sta dentro di noi ma anche e soprattutto come il nostro stare dentro ciò che è più grande di noi, dentro Dio.

Una delle peggiori tragedie umane è il divorzio tra Dio e il corpo. In tale divorzio si può giungere a sopprimere il corpo in nome di Dio, a uccidere gli esseri umani in nome della fede; oppure si può negare Dio in nome del corpo, rischiando di mandare alla deriva il senso della vita per poter esaltare un umano chiuso in se stesso. Il divorzio tra Dio e il corpo getta il sospetto o su Dio o sul corpo, se non addirittura su entrambi. L’esperienza religiosa, invece, è, in un modo o nell’altro, l’approssimarsi del sacro, l’avvicinarsi del trascendente, l’incarnarsi di Dio, e tutto ciò grazie alla dinamica irrisolvibile tra il corpo e il sacro, il trascendente, Dio. Non ci si può rifugiare continuamente in un Dio nascosto nell’anima, dimenticando che nessun’anima può sapere di Dio se Dio non viene nel corpo. I miti di tante religioni, i testi sacri delle grandi religioni e i loro riti, sono un intreccio indistricabile tra Dio e il corpo, e offrono così all’umanità l’occasione per rispettare il corpo e amare Dio.

La tradizione cristiana è tutta concentrata su Dio che viene nel corpo, nelle azioni del suo corpo e nelle parole emesse dal suo corpo. In tal modo, ossia nel corpo, nelle azioni e nelle parola, Dio si fa l’essere più prossimo a noi, capace di prendersi cura di noi, condividendo tutto ciò che fa parte della nostra vita. Forse qualcuno potrà credere che questo è un eccessivo antropomorfismo, ma è Dio che ha scelto la via dell’antropomorfismo, facendosi uomo, corpo, carne, e ricorrendo alle azioni e alle parole. Nessuno può vedere o toccare Dio, ma se si fa corpo, tutti possono vedere e toccare il suo corpo da lui assunto. Le tradizioni evangeliche ci narrano come Dio si sia accostato all’uomo attraverso decine di generazioni, e quindi attraverso il corpo dato che non vi è generazione senza corpo. La via della rivelazione di Dio è la via dell’incarnazione. Dio non ci rivela che si è incarnato ma si incarna e in quella carne consiste la sua rivelazione. La rivelazione non è costituita dalle parole che ci parlano dell’incarnazione, ma da Gesù Cristo, ossia dalla carne stessa assunta da Dio: quella carne è la Parola di Dio ed è la Parola di Dio nel grembo di Maria e nella mangiatoia, ossia prima che parli. Il corpo di Cristo è la Parola di Dio. E per questo la vita eterna riguarda ancora il corpo e sempre il corpo. La vita eterna è il corpo risorto. Il risorto, infatti, non appare ai suoi come uno spirito ma come un corpo. Si tratta di un corpo che non muore più, ossia di un corpo spirituale, ma di un corpo spirituale che raccoglie in se stesso tutto ciò che era prima della morte e lo porta là dove non si muore più.

Giorgio Bonaccorso, monaco benedettino e docente all’Istituto di Liturgia  pastorale