Dio immortale

Lettera diocesana 2018/03

Nel Grande Venerdì, giorno santo e glorioso, la Chiesa guarda il Signore, nella memoria della sua Passione, affisso al legno benedetto, riconoscendo, con un atto di profonda pietà, la manifestazione della salvezza del mondo.

Nel corso dei secoli, la pietà popolare ha dato origine a un notevole patrimonio di canti, preghiere, pie devozioni, processioni, stationes, Viæ Crucis, statue e dipinti, carichi di sentimenti cristiani di autentica religiosità… Come il Medio Evo, attratto dal Christus patiens (il Cristo che patisce o il Cristo sofferente), abbondò di devozione verso la Passione di Cristo, muovendo il cuore dei credenti alla pietas per «un così grande dolore…», così, in tempi assai diversi, le bande musicali, scandendo le gravi note di «Sono stati i miei peccati…» o di «Ti saluto o Croce santa…», accesero gli affetti religiosi dei credenti allo sfilare delle statue del Cristo morto o dell’Addolorata per le strade e le piazze dei paesi… In tempi a noi più vicini, sempre usando il linguaggio dell’affectus christianus, le sacre rappresentazioni o l’arcaico planctus Virginis divennero meditazioni esistenziali sui “crocifissi d’ogni tempo”, intesi come il prolungamento, nella nostra umanità, della croce di Cristo…

La pietà cristiana ha un suo autentico significato e ricopre un posto rilevante nella vita della Chiesa; eppure essa non basta. La croce di Cristo non può essere ridotta a mera esemplarità, a modello di umile rassegnazione davanti al dolore, o alla rievocazione di quanto amore il Redentore ha avuto per noi. Noi non guardiamo alla croce del Signore solo per “gettare in lui i nostri dolori”… Se così fosse, la redenzione sarebbe unicamente un atto morale con cui l’uomo, per religioso ossequio della volontà, sceglie di avvicinarsi alla salvezza. La salvezza è invece iniziativa divina; essa è l’evento con cui il Verbo di Dio entra nella morte e penetra vittorioso negli Inferi per sconquassare così la morte e il peccato e ricondurre l’uomo alla comunione con Dio. Il Venerdì Santo, allora, non è un passaggio obbligato attraverso un’atroce sofferenza da dimenticare presto, per lasciare lo spazio alle campane e all’Alleluja della Domenica di Risurrezione… Pasqua, invece, è la sua morte; Pasqua è la sua sepoltura; Pasqua è la sua risurrezione… intendendo tutto ciò come mistero di salvezza, come un unum indivisibile, come il Risorto che, da vivente, conserva e mostra le piaghe impresse sul suo santissimo corpo.

La celebrazione della Passione del Signore non è, dunque, una pia meditazione dei dolori e della morte di Cristo. Essa invece – tra la liturgia della Parola e il rito di comunione – celebra l’austero rito di adorazione della Santa Croce; si noti: adorazione! I fedeli, giunti presso la croce, genuflettono (il comprensibile affectus legato al bacio, indulge troppo a un senso devozionale) perché adorano il Salvatore, riconoscendo la libertà sovrana con cui Dio entra nella morte e nel peccato dell’uomo, assumendone la fragilità, il limite e la finitudine. Lì il silenzio si fa il più grande mistagogo! E mentre avviene ciò, la Chiesa affranca questo gesto rituale di adorazione da ogni logica devozionalistica o di affectus religioso, interpretandolo, teologicamente, con il canto degli Improperi:

Hagios o Theos
Sanctus Deus
Dio Santo,

 Hagios ischyros
Sanctus fortis
Santo forte,

Hagios athanatos, eleison himas
Sanctus immortalis, miserere nobis
Santo immortale, abbi pietà di noi.

Il Crocifisso che, morto, noi adoriamo è in realtà athanatos (l’alfa privativo greco significa “senza”, “privo di”) cioè “senza-la-morte”… tutto freme come un ossimoro rituale. Noi adoriamo Cristo morto che è “senza la morte”; celebriamo una morte che è vittoriosa; un sangue versato che è scarlatto di vita; delle lacrime che sono senza lutto; una passione che è già risurrezione. La celebrazione della Passione del Signore – unica liturgia del Venerdì Santo – non è, dunque, il nostro affranto ricordo della morte del nostro fondatore: essa, al contrario, manifesta l’agire di Cristo che in quell’evento ci dona – oltre il velo dei segni rituali – se stesso, agnello vittorioso e senza macchia, dono di grazia e di salvezza per ogni uomo e per ogni tempo.

don Gianandrea Di Donna, Ufficio diocesano per la Liturgia

Post Scriptum. Non c’è giorno meno adatto del Venerdì Santo – pur affermando tutto il valore spirituale delle pratiche di pietà – per meditare il pio esercizio della Via Crucis che può, invece, esser ben collocato nei venerdì di Quaresima… Il Venerdì Santo non è fatto per meditare sulla Passione del Signore ma per essere vivificati dalla sua gloriosa potenza.