Davanti al Crocifisso

Lettera diocesana 2018/03

La figura del Crocifisso ci è divenuta così familiare che solo di rado riesce a provocare in noi quella reazione di spavento e di orrore che di per sé la sua visione dovrebbe produrre. D’altra parte, è probabile che l’immagine del Crocifisso non susciti l’immediato senso di sconcerto che dovrebbe anche a motivo della subitanea identificazione dell’uomo giustiziato con Gesù. Con colui che, confessato dai credenti come il Figlio di Dio, si fatica a pensare abbia per davvero potuto soffrire di un dolore reale, uguale a quello di ogni altro che sia morto in circostanze analoghe e nel medesimo modo.

Quando dunque ci si trovi a davanti a una figura del Crocifisso e si desideri comprenderne il significato un po’ più in profondità, superando il senso di assuefazione procurato dall’eccesso di esposizione alla figura stessa o il sospetto che il dramma rappresentato non sia del tutto reale, è forse opportuno in primo luogo ricordare le parole che l’evangelista Marco narra pronunciate dal centurione romano nel momento in cui Gesù spirò – «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39) – situandole nella cornice di una scena i cui toni altamente drammatici non concedono nulla al tentativo di attenuarne la scandalosità. Poiché è appunto questo il termine che, riferendosi alla sua morte prossima a verificarsi, Gesù aveva usato per indicare l’impressione che essa avrebbe prodotto persino sui suoi discepoli: «Tutti rimarrete scandalizzati» (Mc 14,26). Inchiodato sulla croce, Gesù è descritto dall’evangelista agonizzare insultato dai passanti e dai due ladroni giustiziati assieme a lui, deriso dai capi dei sacerdoti e dagli scribi: ma altresì ferito nell’anima dal silenzio di quel Dio che pure, per due volte, in occasione del suo battesimo al Giordano e della sua trasfigurazione sul monte, l’aveva chiamato «il Figlio mio, l’amato» (Mc 1,11; 9,7). «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34) è la domanda straziante che, all’apice della scena della crocifissione, Gesù urla verso quello stesso cielo dal quale era scesa la voce che lo aveva dichiarato Figlio amato, ma che ora è diventato buio e muto.

Ben lontano dall’essere imputabile a una volontà di morte perseguita da Dio nei confronti del suo Figlio, all’origine dell’angoscia che attanaglia Gesù sta il vuoto creatogli intorno da chi l’ha rifiutato mettendolo a morte, e da chi è fuggito, l’ha tradito e rinnegato. La sensazione di abbandono e la domanda che essa genera in lui diventano il sentimento e l’interrogativo che feriscono il suo legame con il Padre. Il cui silenzio – se non può denotare indifferenza né essere assimilato a un qualche segnale indicativo della sua volontà di morte o punizione nei riguardi del proprio Figlio – si rivela essere, a sua volta, l’indice della ferita da Lui patita, in quella situazione, nella sua relazione di Padre, ridotto ad ammutolito, impotente testimone dell’uccisione del «Figlio amato», che aveva inviato nutrendo fino all’ultimo la fiducia che sarebbe stato accolto e rispettato (Mc 12,6). Ciò che così si viene a palesare è la modalità di un coinvolgimento del loro mutuo legame negli avvenimenti e nelle relazioni costitutivi della trama della vicenda di Gesù che non solo non ne preordina il corso e non ne condiziona l’accadimento ma acconsente a dipenderne. Acconsente a esporsi alle libere e imprevedibili risposte volta a volta date, quale che sia il loro segno, positivo o negativo, senza sottrarsi loro quando divenga eccessivamente rischioso farvi fronte. Nessuna azione miracolosa dal cielo perciò che intervenga a modificare l’esito di morte al quale è infine approdata l’opposizione nei confronti di Gesù, bensì la completa accettazione dello svolgersi degli eventi, tanto per riferimento alle cause e alle responsabilità che ne determinano storicamente l’origine, quanto per riferimento ai modi che ne distinguono l’accadere.

Certo, Dio non lascerà Gesù nell’umiliazione della morte che gli è stata inflitta. Lo strapperà a essa mediante la potenza dello Spirito del bene che gli vuole, o detto altrimenti, lo risusciterà. Arriverà a questo, tuttavia, avendo prima sperimento Egli stesso di che cosa il male, e la morte che esso produce nel mondo e nella storia, sono capaci: far sentire «il Figlio» abbandonato dal proprio «Padre», ridurre «il Padre» a inerme spettatore dell’uccisione di suo «Figlio».

Quello che si sta guardando è anzitutto un uomo – «questo uomo» dice il centurione – il cui corpo porta e mostra tutti i segni del male che gli è stato fatto; un male sofferto da innocente, al pari di innumerevoli uomini e donne che sono morti in uno stato somigliante al suo. Ed è appunto in questa immediata evidenza che è dato di poter riconoscere con piena verità il suo essere «Figlio di Dio». Colui che pende dal patibolo è l’uomo che il Figlio di Dio ha voluto diventare: senza concedersi privilegi, o cercare scorciatoie, che gli rendessero più facile vivere la condizione umana. Il Dio con noi – come all’annuncio della sua nascita era stato chiamato dall’angelo (Mt 1,23) – anche là dove siamo indifesi, soli, addolorati, dilacerati nella carne e nello spirito. Il Dio con noi che ha provato su di sé la violenza, che ha sperimentato l’angoscia, la solitudine, la paura, la morte.

Figlio di Dio, dunque, ma nella forma resa appieno visibile e tangibile dal dolore del suo corpo di uomo crocifisso e dal grido d’abbandono scaturito dalla sua anima. Figlio che in questo modo ci è diventato fratello: perché ha condiviso la nostra condizione fino all’estremo. Ma che in questo modo ci ha mostrato Dio, il Padre suo e nostro: come il Dio che non ha altra potenza al di fuori di quella testimoniata dalla debolezza del Crocifisso. Le sue mani inchiodate, che ritraggono al vivo l’impotenza cui Gesù è stato ridotto, ne sono una figura plastica. Esposto inerme all’aggressione rapace di chi gli vuole togliere la vita, egli la offre spontaneamente, vincendo la violenza malefica e distruttrice dei suoi aggressori in grazia di una dedizione che, patendo su di sé il male, lo annulla, lo cancella: lo espia. Perché non lo restituisce, levandogli così in radice la possibilità di perpetuarsi tramite una catena di odio che produce sempre nuovo odio e vendetta; ma, insieme, perché lo vince con la potenza che il Padre gli chiede di manifestare essere l’unica di cui egli vuole e può disporre.

don Sergio De Marchi, docente di Teologia dogmatica, Facoltà teologica del Triveneto