Da vedere 2021/01

IL FIGLIO DELL’ALTRA (2013)

di Lorraine Lévy
drammatico, 105min

Convocata dal medico, Orith riceve un’inattesa notizia: Joseph non è il vero figlio, scambiato per errore alla nascita con Yacine. Il marito di Orith è un alto ufficiale dell’esercito, e Joseph è in procinto di partire per il servizio militare, preso in giro dai coetanei proprio per questa parentela. Yacine è cresciuto in una famiglia palestinese in Cisgiordania. Con la necessaria prudenza i due ragazzi vengono informati: all’improvviso tutto cambia, non solo nelle loro vite ma anche in quelle dei genitori e delle rispettive famiglie. Si tratta in pratica di ricominciare tutto daccapo: convinzioni, valori, modi di fare, rapporti sociali e amicizie. La ricostruzione di un’identità richiede a ogni singolo componente capacità, pazienza, coraggio per andare oltre le divisioni e guardare verso il futuro.

Al terzo titolo, Lorraine Lévy, ebrea francese, si butta a capofitto in un tema sull’orlo di non pochi rischi narrativi: naturalmente storici, politici, generazionali, tra retorica, prevedibilità, correttezza istituzionale. Va detto che il copione corre pulito, lucido, essenziale, capace di misurarsi lungo una dialettica efficace, mai banale o scontata. Sono in primo piano problemi così importanti, seri e profondi da lasciare campo aperto alla discussione senza l’incombere di zavorre ideologiche o di giudizi pretestuosi. Preminente resta l’obiettivo di comporre un efficace invito al rispetto reciproco, alla comprensione, al dialogo. Dal punto di vista pastorale, il film è da valutare come consigliabile, problematico e adatto per dibattiti (dal giudizio della Commissione nazionale valutazione film della Cei).


ALMANYA – la mia famiglia va in Germania (2011)

di Yasemin Samderell
commedia, 97 min

Ormai nonno, Huseyin una sera comunica alla famiglia riunita comunica di aver acquistato una casa in Turchia. A proprie spose, invita tutti a compiere il viaggio a ritroso dalla Germania, dove vivono, al Paese delle origini. All’arrivo, mentre su un pullman si dirigono verso il luogo stabilito, Gabi, la nipote adolescente, racconta a quello più piccolo, le vicende di Huseyin da quando giovane turco decise di trasferirsi in Germania in cerca di lavoro. Scorrono trenta anni di storia, la moglie, i figli, la prima casa, le difficoltà, il raggiungimento di una certa tranquillità. Proprio quando giungono nella terra dove tutto è cominciato, Huseyin è colpito da infarto e muore. E uno dei figli decide di restare in Turchia.

Tra il 1961 e il 1973, circa due milioni di turchi arrivarono in Germania. La terza generazione è composta di ragazzi, grandi e piccoli, nati su suolo tedesco e bisognosi di sapere cosa è successo “prima”. Da qui i flashback, e il discorso finale che il piccolo fa al posto del nonno in una sorta di passaggio di consegne generazionale. I temi che emergono sarebbero (sono) tanti, ma, se è vero che in genere siamo abituati a vederli abbinati a copioni dai toni forti e aspri, è più giusto dire che invece la regista esordiente oriunda opta, insieme alla sorella, per un taglio tra la commedia e la favola. Umorismo e simpatia miste a leggerezza di tratti e di dialoghi si insinuano degli interstizi della narrazione, passando tra “ieri” e “oggi” e aprendosi a un “domani” più proficuo per entrambi. Forse intergrazione, multiculturalismo, meticciato sono aspetti dell’Europa contemporanea che è meglio affidare più a un’ironia venata di lirismo che a una denuncia ideologica talvolta controproducente. Dal punto di vista pastorale, il film è da valutare come consigliabile e poetico nel tono descrittivo ((dal giudizio della Commissione nazionale valutazione film della Cei).


DUE SOTTO IL BURQA (2017)


di Sou Abadi
commedia, 90min

A Parigi Armand e Leila si amano e stanno progettando di partire per gli Stati Uniti, dove lei farà uno stage all’Onu. Proprio pochi giorni prima di prendere il volo, Mahmoud, fratello di Leila, torna da un lungo soggiorno in Yemen. L’uomo ha abbracciato la causa dei musulmani, vede nello stile di vita americano un pericolo troppo grande, così chiude in casa Leila e le impedisce di partire…

La regista è nata in Iran e – aggiunge – «ho trascorso una parte della mia vita sotto la repubblica islamica dell’Iran. L’educazione religiosa obbligatoria, le restrizioni nell’abbigliamento e le pattuglie repressive fanno parte dei ricordi indelebili della mia adolescenza». La cornice è dunque seria, molto seria ma produce un film che si colloca decisamente sul versante della commedia. Con le dovute proporzioni, l’esempio di riferimento è “A qualcuno piace caldo” di Billy Wilder: anche qui il centro della vicenda è il travestimento, ossia la capacità di una persona di indossare panni altrui e di essere creduto per quello che impersona. Da questo pretesto si dipana una lunga catena di equivoci, scambi di persona, inganni in una girandola di sotterfugi senza fine. Magari qui l’oggetto del contendere è leggermente più ‘forte’ del duo Lemmon/Matthau. Ma proprio per questo, mentre si aspetterebbe che lo scarto religioso imponesse maggiore attenzione, ecco che la soluzione ironica, il sorriso come arma di difesa, la messa alla berlina di eccessi e estremismi volgono tutto in burla e come in una fiaba, arriva un finale che richiama tutti all’ordine. Ancora una volta la commedia svolge un fondamentale ruolo di mediazione: sulle ali della (iper)realtà, è possibile muoversi con stile e grazia, scavalcando incomprensioni e denunciando la superficialità di atteggiamenti non pertinenti. È un bell’esempio di incontro multiculturale, con il consueto briciolo di dubbio galleggiante: ma una storia simile è possibile immaginarla a parti invertite senza cambiare niente? Dal punto di vista pastorale, il film è da valutare come consigliabile, problematico e opportuno per dibattiti (dal giudizio della Commissione nazionale valutazione film della Cei).