Da vedere 2018/04

LA FORMA DELL’ACQUA – THE SHAPE OF WATER

Guillermo Del Toro
genere: drammatico, 123’

Stati Uniti, anni Sessanta, nel pieno della guerra fredda. Elisa, sordomuta, è addetta alle pulizie in un segretissimo laboratorio governativo. La sua vita sembra cambiare quando fa una scoperta inattesa…

Quante persone, di non elevata preparazione ma di indiscusso valore sociale erano nascoste nei meandri di luoghi di lavoro tra spreco e sacrificio, eseguendo ordini senza ribattere e senza protestare, ma osservando, ascoltando e pensando? L’America a cavallo tra ’50 e ’60 era così, popolazione ordinata e insieme capace di reazioni, e soprattutto di sogni. Al sogno si affida Elisa, donna delle pulizie quando per caso si imbatte in uno strano essere tra il mostruoso e il pauroso, che viene tenuto nascosto e isolato con la prospettiva di eliminarlo. Il senso di protezione scatta immediato. Elisa prende per l’imprevista creatura anfibia una infatuazione come un sentimento di difesa e di protezione, che la induce a fare qualcosa per salvargli la vita. Sulla presenza di un “altro“, diverso e tale da incutere paura, si snoda il racconto. Che gioca a corrente alternata sulla diffidenza, sul timore mai sopito dei nemici sconosciuti dell’America, sui cittadini di diversa definizione, sul pericolo “comunista” più che mai incombente. Elisa, all’inizio timida e poi via via più coraggiosa, affronta i rischi di una reazione seria e spavalda, una prova di forza che gli mette contro il capo/padrone. È bravo del Toro a scandire dentro i toni di una favola dai colori neri e paurosi i ritmi di una tensione forte e incontrollabile, tra durezza e amarezza esistenziale. Il film scorre pieno di suspense, di angoscia, di aperture verso un cambiamento, alleggerito da colori forti, da un clima “noir” con molti fremiti e paure inconsce. Ne esce il ritratto di un’America anni Cinquanta serio e credibile, anche se plasmato dalla visionarietà onirica della fiaba. Diretto con polso e vigore creativo notevoli, il film ha ottenuto a Venezia quel Leone d’oro che ha segnato il definitivo lancio del regista messicano a livello internazionale.

Dal punto di vista pastorale, il film è da valutare come consigliabile, problematico e adatto per dibattiti (Commissione nazionale valutazione film Cei).


HARMONIA

Ori Sivan
durata 98’ – Israele2016

Una coppia di larghi mezzi che non riesce a dare alla luce un figlio si affida, per averlo, a una giovane donna straniera, di condizione più modesta. La materia incandescente di Harmonia non viene dall’ultima lacerante storia di maternità surrogata, ma dal più celebre triangolo della Genesi, primo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana, in cui le complesse dinamiche di una famiglia allargata si intrecciano con le radici dell’antico conflitto tra i due popoli che vivono in Terrasanta, alla ricerca di un’elusiva convergenza armonica.
Nella storia relativamente breve del cinema israeliano, riferimenti biblici e temi religiosi si sono moltiplicati solo in anni recenti, in corrispondenza con il diffuso risveglio religioso e con il peso crescente delle tensioni tra correnti secolari e ortodosse nel dibattito pubblico. Il film di Ori Sivan, tuttavia, affonda nella secolare quotidiana intimità del mondo ebraico con il testo biblico, interrogato nelle sue pieghe e tra le righe, e con i suoi personaggi, specchio a luci e ombre di ogni aspetto della natura umana e delle società.
La vicenda si svolge oggi a Gerusalemme, con Abraham nei panni del carismatico direttore della Israel Philharmonic Orchestra. Sua moglie Sarah, l’arpista, ha cercato per anni di avere un bambino. Hagar, araba israeliana di Gerusalemme Est, si unisce all’orchestra come terza suonatrice di corno francese. Tra le due donne si sviluppa un’amicizia intima e intensa, che sfida la comprensione degli uomini loro vicini. Si tratta anche – come nel Libro della Genesi – di una relazione di potere. Ma Ori Sivan la trasforma in una connessione sotterranea e profonda, messa alla prova quando Hagar dà alla luce un figlio, che Abraham e Sarah chiamano Ben, ma preferirà il nome di Ismail.
Come il suo antenato biblico, Ben è un bambino selvaggio, che non riesce a trovare un posto per se stesso nella casa benestante e inerte di Abraham e di Sarah. I rapporti precipitano quando lei, a dispetto degli anni, ha a sua volta un bambino. Un paio di anni dopo, un fotografo cattura l’immagine sfocata e tragica di Ben sullo sfondo buio del poster in cui Sarah posa con il piccolo Isaac per il suo debutto alla Carnegie Hall. Anche nel film, Hagar e Ismail si allontanano dalla casa di Abraham: una separazione dolorosa traboccante di invidie, rancori e rifiuto. Sono gli indizi sottili e reticenti del testo sacro a suggerire al regista, come agli esegeti, la ricerca di una possibile conclusione alternativa.
Fin dall’inizio il film esplicita l’adesione alle Scritture con citazioni dei versetti che introducono i personaggi e gli snodi della storia. Ma non ci vuole molto a capire che la rilettura di Ori Sivan assume forme originali e tutt’altro che semplicistiche. A una trama che si sviluppa in modo ellittico e drammatico, chiamando lo spettatore a riempire i vuoti di informazione, proprio come il racconto biblico, si contrappone uno stile spigoloso e surreale, sottilmente inquietante, che sottolinea gli elementi più oscuri della storia con scelte espressionistiche: nei colori fastosi, nel montaggio discontinuo, negli intensi primi piani che riscrivono i dialoghi minimali e ci coinvolgono nella riflessione su come possa “risuonare”, oggi, la storia archetipica di Abramo e delle sue due mogli.
(Dalla scheda di approfondimento a cura di Katia Malatesta – Festival Religion Today)