Cosa dice questo testo alla nostra Chiesa?

Lettera diocesana_Sguardi 2020/03

«La chiesa più bella non è quella che abbiamo perduta, ma quella che deve ancora venire». Potrebbe essere questa una sintesi del messaggio che il libro di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti – La scommessa cattolica (Il Mulino, Bologna 2019) – offre ai cattolici e alla Chiesa nel suo insieme.

I due autori (marito e moglie), con rigore intellettuale, slancio culturale, passione evangelica ed ecclesiale, ci consegnano pagine illuminanti sia per interpretare i pregi e i nodi irrisolti del tempo contemporaneo, sia per cogliere la vicenda bimillenaria dell’intreccio tra la fede cristiana e le diverse visioni del mondo che si sono via via susseguite, sia per offrire spunti profondamente evangelici alla stessa Chiesa cattolica, nel suo sforzo a volte affannato di annuncio del Vangelo in quest’epoca.
Il libro trasmette il desiderio di provare a ripensarci come Chiesa, facendoci guidare dal «paradosso cristiano». E ciò viene fatto con delicatezza e precisione verso le fatiche della Chiesa, con severità verso le contraddizioni del tempo contemporaneo, e infondendo il senso di un grande compito che ancora ci è affidato come cristiani e come cattolici.
Traspare profondamente nel testo l’ispirazione a molte pagine del Vangelo: una su tutte, la parabola del padre misericordioso riletta in prospettiva escatologica, come paradigma della vicenda storica dell’umanità rispetto a Dio, e alla fede in Lui.

Anche la nostra Chiesa di Padova può trovare in questo testo alcuni spunti per il proprio cammino.
Gli autori ci aiutano a riflettere anzitutto sulla nostra fede: «apparteniamo all’ultima generazione per la quale la fede ha significato adesione ad una dottrina ben precisa e a una comunità definita nelle sue forme, nei suoi riti, nelle sue regole (…). In quello schema, il catechismo dei bambini e dei ragazzi era il pilastro su cui l’intero edificio ecclesiale si reggeva, insieme all’iniziazione attraverso i sacramenti».

Conosciamo bene questa impostazione: è quella che con fatica stiamo cercando di modificare investendo sempre di più sugli adulti ad esempio per quanto riguarda l’iniziazione cristiana dei ragazzi. La provocazione di Giaccardi e Magatti ci incoraggia proprio in questa trasformazione. E la figura della fede che gli autori intuiscono è quella della fede come affidamento, una fede evangelica e «compatibile (benché in prospettiva critica) con i passaggi compiuti dalla modernità». Una fede che è un modo di essere nel mondo: affidati a Dio, e perciò capaci di generare, e capaci di uscire dall’Io per camminare verso l’altro, senza incamerarlo, senza dissiparsi, senza consegnarsi alla società iperorganizzata che tutto vuole imbrigliare, senza sognare la totale liberazione dai legami, ma piuttosto instaurando legami generativi. Un movimento apparentemente innaturale che, «per un’idea riduttiva di autoconservazione, l’essere umano istintivamente rifugge» ma che, affidati a Dio, diventa possibile. In questa prospettiva, la Chiesa può ripensarsi proprio come l’insieme «dei credenti che conserva la memoria di tutti coloro che, avendo compiuto questo passo, possono testimoniare che la promessa del Vangelo è affidabile»; e la dottrina, i precetti, gli stessi sacramenti sono ricompresi come gli strumenti (doni) che aiutano a compiere quel difficile passo.
La fede come affidamento rimette dunque in ordine i “fattori” anche della vita della Chiesa, perché punta come esito alla testimonianza: questa in effetti è la scommessa di tutta la pastorale.

Ma quale testimonianza? Una testimonianza che non si contrappone alla contemporaneità, sognando un ritorno alle forme del passato o cittadelle di perfetti, ma che, prendendo sul serio le istanze dell’umanità contemporanea, immette in essa gli anticorpi rispetto alle sue possibili derive, e ne esalta le conquiste migliori. La deriva che Giaccardi e Magatti identificano come tipica della modernità è quella dell’astrazione, per cui l’uomo viene ridotto a ingranaggio di un meccanismo impersonale e non umano. L’astrazione peraltro può essere anche quella della religione, delle ideologie politiche, e in passato ciò è avvenuto: ma con la tecnoeconomia, causa e frutto allo stesso tempo dell’assolutizzazione dell’Io che cerca di svincolarsi da ogni legame, essa diventa particolarmente pervasiva della vita delle persone, riducendo a scarto la gran parte di esse, e proiettando in una corsa all’infinito – ma illusorio – potenziamento di sé la parte privilegiata dell’umanità.
L’anticorpo decisivo che la fede cattolica (e dunque la Chiesa cattolica, nella misura in cui sarà capace di ripensarsi anche come istituzione e saprà nutrirsi delle grandi istanze delle Chiese riformata e ortodossa, la libertà e il senso del mistero) può e deve offrire è quello della spinta all’incontro con la realtà, contro ogni astrazione e ogni deriva tecnocratica. Si tratta di un «dovere di umanità». La fede, infatti, aprendo l’umanità alla relazione con un Dio creatore e Padre che si è fatto uomo, è via capace di tenere insieme il concreto e l’universale, senza che il concreto venga inteso come chiusura solitaria in se stessi, né che l’universale sia concepito come astrazione che tutto livella. La fede cattolica rimanda ai legami, aiutando a cogliere la relazione di ciascuno con il tutto: di Dio, della terra, degli altri, della vita. Questa prospettiva dà una motivazione profonda all’impegno di costruzione dei legami comunitari capillari e concreti che come Chiesa di Padova stiamo immaginando.

Il libro La scommessa cattolica, proprio per questa prospettiva così acuta sulla fede e sull’oggi, contribuisce alla restituzione dell’entusiasmo di essere cattolici, dando un significato densissimo e attualissimo a questa parola che a volte tentenna nelle nostre menti, nei nostri cuori e sulle nostre labbra.

don Marco Cagol, vicario episcopale per i rapporti con il territorio e le istituzioni