Come accompagnare? Quali risposte?

Lettera diocesana_Sguardi_2022/03

Aiutare la persona che soffre, lungo la strada che porta alla fine della vita, è un dovere morale che fa parte integrante della deontologia medica. Educare alla morte, pensare che la vita finirà diventa difficile avendo a disposizione innumerevoli possibilità per allontanarla: farmaci biotecnologici, interventi chirurgici robotizzati, alimentazione artificiale. Diventa quindi un compito importante non accelerare, né ritardare la morte. Sant’Agostino ci aiuta a vedere la morte come un evento naturale, un passaggio che però mantiene la sua continuità con la vita terrena: «Quelli che ci hanno lasciato tengono i loro occhi pieni di gloria fissi nei nostri, pieni di lacrime».

Per il malato terminale e per la sua famiglia è necessario intraprendere un percorso che possa alleviare le difficoltà e la paura della sofferenza che inevitabilmente la malattia comporta. Il primo pensiero è rivolto al dolore fisico che non permette la vita di relazione ma, se non curato, avvolge la persona malata e la sua famiglia nella disperazione, esiste oggi la possibilità di alleviare, di ridurre o addirittura di evitare il sintomo dolore attraverso la somministrazione di farmaci che restituiscono così, dignità alla persona, e la possibilità di ridare vita al contatto, alla presenza, al dialogo con le persone care. Questa rimane una piccola parte dell’aiuto al morente, perché diventa indispensabile curare il dolore psicologico, sociale e spirituale, per tale motivo in questo compito non si può essere soli, è vitale una collaborazione multiprofessionale e multidisciplinare, psicologo, infermiere, assistente sociale, assistente spirituale, ognuno con le proprie competenze per condurre questo impegno gravoso che espone i curanti a un coinvolgimento emotivo molto forte. È la condivisione che permette di sostenere la fatica, lo sforzo, la stanchezza, mettere insieme le varie competenze permette di accompagnare ad una morte dignitosa. La comprensibile sofferenza dei familiari è mitigata dalla buona morte, che permette di superare la difficoltà del dopo e di elaborare con serenità la fase del lutto.

Chi accompagna alla morte ha un grande regalo, quello di avvicinarsi quotidianamente ad essa, in un certo senso di conoscerla giorno per giorno e di allontanare la paura dell’ignoto. Non ci si abitua mai a vedere morire le persone, quando succede è sempre una sorpresa, non doveva succedere in quel momento, era troppo presto, il desiderio che tutto rimanga in vita è sempre forte, anche quando non è più possibile. Quando succede, il volto di queste persone muta, ringiovanisce, i lineamenti si addolciscono, l’espressione emana serenità, sembra quasi che tutte le domande fatte in precedenza – “perché proprio a me una prova così difficile“, “credo nell’aldilà ma lo stesso ho paura di morire” – abbiano trovato una risposta.

dott. Paolo Forzan, medico palliativista, membro del comitato etico dell’OPSA