Accompagnare il lutto

Lettera diocesana 2017/07

È indiscutibile che oggi si stia operando una sorta di congiura del silenzio sulla morte, interrotta a tratti da alcuni nuovi riti esorcizzanti e scenografici come il bell’applauso alla fine delle esequie. Nel suo saggio sui vari modi storici di reagire alla morte, Philippe Arlés scrive che la morte:

«è diventata tabù, una cosa innominabile» e racconta come «i bambini vengano iniziati fin dalla tenera età alla fisiologia dell’amore e della nascita, ma quando non vedono più il nonno e chiedono il perché, in Francia gli si risponde che è partito per un paese molto lontano, in Inghilterra e riposa in un bel giardino dove cresce il caprifoglio. Non sono più i bambini a nascere sotto un cavolo, ma i morti scomparire tra i fiori»[1].

L’uomo contemporaneo tenta di mettere una distanza sempre maggiore fra sé e l’esperienza della morte, e per questo fa di tutto per non incontrarla. Uno dei meccanismi di rimozione è ciò che viene definito come medicalizzazione della morte, cioè la delega alle strutture ospedaliere. Chi muore oggi lo deve fare in silenzio, in modo quasi meccanico, lontano dai suoi familiari e dai rumori della città, tolto anche a se stesso, perché relegato in una stanza asettica d’ospedale, dove diventa un numero e non impone la sua presenza ingombrante. Chi muore, nella maggior parte dei casi, non è più posto nella condizione di affrontare il suo definitivo passaggio e di beneficiare della partecipazione degli altri a un evento che in qualche modo interessa la collettività. Sono così venute meno quelle espressioni con cui il mondo della morte e della vita, in una cultura non lontana, potevano stabilire un fecondo rapporto. Infatti, sono quasi del tutto spariti quei riti pubblici come la veglia funebre, l’accompagnamento della bara o i segni esteriori come l’abito nero, la fascia nera sulla giacca o sulle lettere.

Di fronte a questa situazione, pur essendo difficile l’accompagnamento del morente e l’elaborazione del lutto, la comunità cristiana può rendersi compagna di cammino nell’elaborazione del lutto quando essa stessa fa un percorso autentico di evangelizzazione della morte. È necessario che una comunità abbia il coraggio di fermarsi su questo tema specifico della nostra fede, perché esso è il fondamento della nostra identità. I cristiani sono portatori nella storia dell’annuncio pasquale e della speranza che da esso scaturisce e che apre l’orizzonte dell’esistenza umana all’infinita eternità di Dio. Va pensato un percorso preciso all’interno del quale si riscopra la verità della fede cristiana e cattolica, perché spesso, all’interno delle nostre comunità, sono presenti idee che poco hanno a che fare con la fede autentica. Tale percorso deve conservare l’aspetto esistenziale legandolo ai contenuti della fede e non semplicemente informare o consegnare verità con un linguaggio magari obsoleto. La dimensione escatologica ha bisogno di essere riproposta con continuità alla nostre comunità credenti.

Ma l’accompagnamento nell’esperienza di un lutto ha bisogno anche di un’altra dimensione che è quella delle relazioni fraterne capaci di assumere la realtà faticosa degli altri come propria: «Portate gli uni i pesi degli altri, così adempirete la legge dei Cristo» (Gal 6,2).

Essa rappresenta un’indicazione preziosissima dello stile di vita concreto della comunità. Si tratta di quel “sentire” che accomuna i discepoli e li unisce in un solo corpo, rendendoli partecipi delle gioie e delle sofferenze degli altri. È necessario allora creare un clima accogliente e di condivisione attraverso la facilitazione dell’incontro, facendo della parrocchia uno spazio relazionale autentico. Chi vive l’esperienza del lutto deve sapere che lì c’è un luogo dove è possibile raccontarsi e incontrare persone che sanno ascoltare facendosi compagni di cammino. La ricerca affannosa di risposte alle proprie domande si lega al bisogno, a volte spasmodico, di eliminare il dolore e, invece, è necessario farsi carico di una fatica che, più che trovare risposte nella fede, sia capace di rinvenire, all’interno della stessa, il senso dell’evento.

Se guardiamo al Vangelo è facile notare come Gesù non offra mai risposte su cose che potrebbero sembrare apparentemente incomprensibili ma, piuttosto, vivendo l’esperienza umana e facendosi compagno degli uomini, riesce sempre a dischiuderne il senso più profondo. Per fare ciò, occorre una profonda relazione con il Signore, ma anche intuito, sensibilità, discrezione e soprattutto talento dialogico.

don Giorgio Bezze, direttore Ufficio diocesano per l’Annuncio e la Catechesi

 

[1] P. Arlés, Storia della morte in occidente: dal medioveo ai giorni nostri, Rizzoli, Milano, 1985, pp 213-214.